Quando mia nonna era piccola andava spesso nella bottega
della sarta. Le insegnava a cucire i vestiti e soprattutto, se si strappavano,
ad aggiustarli.
Così, se la suola delle scarpe era scollata, si andava dal
calzolaio; per l’orologio fermo, dall’orologiaio; per l’ombrello storto, dall’ombrellaio.
Dei vasai che riparavano le giare ormai si legge solo nelle novelle. Sembra
incredibile, ma c’erano addirittura delle suore che sapevano rimagliare le
calze strappate. Costruire, rompere, aggiustare.
È un ciclo continuo di speranza, la piacevole sensazione di
una seconda chance. E ancora, lo studio del dettaglio, la creazione di strumenti
specifici per ogni ingranaggio, ciascuno con un nome, una funzione precisa.
Come gli strumenti di un chirurgo, guarivano le cose.
Adesso costruiamo un sacco. Rompiamo, anche. Però non si
aggiusta più niente, forse nessuno è più capace. Gli oggetti sono solo oggetti,
non ci accompagnano nella vita.
Non soltanto la vastissima gamma di prodotti usa-e-getta,
macchine fotografiche, stoviglie, penne, rasoi, di tutto. In generale, anche
ciò che compriamo affinché duri, per una semplice ammaccatura o uno strappo,
finisce inesorabilmente nella spazzatura. È un po’ più di uno spreco. È una tendenza o peggio una filosofia di vita che si sta via
via insinuando nella nostra routine.
Non sarebbe niente male se ricominciassimo ad aggiustare.
Innanzitutto, perché ci fa capire come sono fatte realmente le cose – e le
situazioni – dall’interno. Ci insegna ad osservare con pazienza e a
scervellarci per trovare la soluzione. Non sarebbe proprio niente male, e
chissà se non riusciremmo ad aggiustare anche qualcos’altro, qualche matrimonio
in più, ad esempio, o un’amicizia incrinata. Riusciremmo, forse, addirittura, ad
aggiustare qualche persona, di quelle speciali ma sole, o deboli, o anziane,
che hanno soltanto bisogno di attenzioni per essere “rimesse in sesto”.
Non dobbiamo inventare nulla, dobbiamo soltanto imparare di
nuovo.
Francesca Mignacco
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